Non fu solo sport. Non fu soltanto pallanuoto. Ciò che accadde a Bogliasco esattamente 40 anni fa non si può rubricare come un semplice avvenimento da almanacco. La conquista dell’Italia da parte di un manipolo di giovanotti in costume e calottina che difendeva i colori di un borgo di quattromila anime fu molto di più. Fu il sorpasso della fantasia sulla realtà, la sublimazione di un sogno collettivo, il delirio di un paese che per molte settimane non riuscì a ritrovare la tranquillità che lo contraddistingueva, il coronamento di un viaggio iniziato esattamente 30 anni prima e ancora in essere.
Mai prima né dopo di quel 8 agosto 1981 un comune così piccolo era diventato la Capitale d’Italia in uno sport di squadra. Un primato che forse più di altri rende l’idea di cosa seppe combinare la Rari Nantes in quella torrida serata d’estate di quattro decenni fa. Certo, Bogliasco si trovava nel bel mezzo di una terra feconda come poche dal punto di vista pallanuotistico, i cui figli da oltre un secolo nuotano con successo dietro ad un pallone. Un lembo di Liguria contagiata per generazioni in maniera irreparabile dalla febbre per la waterpolo. Eppure ipotizzare che il piccolo borgo potesse mettere in riga tutte le grandi metropoli della disciplina era un pensiero da pronunciare sotto voce per non correre il rischio che qualcuno potesse mettere in dubbio la vostra salute mentale. E invece quel angolo di Paradiso, inteso come Golfo, fu realmente capace di toccarlo il Paradiso, quello celeste, dipingendo mare e cielo di un unico colore.
Un avvenimento unico che un invisibile filo lega all’attualità. Il capitano di quella epica squadra era infatti Gianni Fossati, oggi ds del Bogliasco ‘51, la fenice nata qualche anno fa dalle ceneri della Rari Nantes. Chi meglio di lui può raccontare come si entra nella leggenda? “E’ senza dubbio l’emozione più grande che lo sport mi ha saputo regalare. E’ stato qualcosa di unico, quasi incredibile, non solo a livello personale ma credo anche generale. Non so se vedremo mai più un’impresa come quella. Di sicuro fino ad oggi è rimasta isolata. Esserne stato protagonista mi riempie d’orgoglio e sono contento che, finalmente, dopo 40 anni qualcuno si sia finalmente ricordato di questo pazzesco trionfo. L’unico rammarico è che alla festa manchino tre grandi artefici di quello Scudetto come Roberto Gandofi, Stefano Di Fiore e Marco Jervasutti. Festeggiare senza di loro sarà necessariamente un po’ meno bello”.
Il ricordo di chi se n’è andato troppo presto fa il paio con la magia di quell’annata che ancora oggi si respira nelle stanze dense dell’odoro di cloro della Gianni Vassallo, la piscina-tempio della pallanuoto bogliaschina. Perché certe emozioni sono destinate a restare indelebili perfino nella memoria di chi non ha avuto il privilegio di viverle. Ma pensare che tutto fu originato da un atto di bonarietà degli dei della pallanuoto sarebbe un abbaglio. Quella squadra, che fino ad allora faceva l’ascensore tra la Serie A e le categorie minori, era il frutto della volontà di dirigenti illuminati e innamorati di questo sport: “Tutto – racconta ancora Fossati – nacque da un momento di follia del nostro presidente: Adelio Peruzzi. L’anno prima eravamo candidati alla retrocessione e invece di salvammo con ampio anticipo. Quel torneo fu l’inizio di tutto, perché fece scattare qualcosa in lui che pochi avrebbero potuto immaginare”.
Travolto da un pensiero stupendo e assecondato dai suoi dirigenti, Peruzzi allestì un organico di prim’ordine mettendo a disposizione di coach Angelo ‘Vio’ Marciani fior di campioni. Ai reduci della stagione precedente (Fossati, Gandolfi, Roncan, Bormida, Costa, Cocchiere, Re, Migliorini) vennero affiancati talenti pescati qua e là ad ogni latitudine: Jervasutti, Di Fiore, Collina, Ragosa. Una torta coronata dalla più bella delle ciliegine: Eraldo Pizzo. L’arrivo del Pelè dell’acqua clorata, voglioso di dimostrare di non essere ancora arrivato a fine corsa malgrado i 40 anni suonati, fu la dimostrazione che l’utopia poteva trasformarsi in materia concreta: “Io avevo 25 anni e poter giocare con un mito come Eraldo fu un sogno cullato fin da bambino. Eravamo già un bel gruppo ma con lui e gli altri arrivati diventammo uno squadrone. E il Caimano era la nostra ciliegina. Tutti questi grandi acquisti, però, mi fecero vacillare. Non mi consideravo alla loro altezza. Tanto che io stesso temetti di non riuscire più a giocare. Meditai di andarmene. Quando Marciani scoprì le mie intenzioni mi investì di insulti: ‘Ma che uomo sei? Scappi di fronte alle difficoltà? Codardo! Resta e dimostra di cosa sei capace’. Parole dure come pietre che tuttavia ebbero l’effetto desiderato, convincendomi che in quello spogliatoio c’era posto anche per me. Ma non era un posto privilegiato. Anzi, per conquistarlo dovetti dare il 150% in ogni allenamento e in ogni partita e i risultati si videro. Crebbi in maniera esponenziale sia come uomo che come atleta e in acqua divenni uno di quelli che giocava di più”.
Una storia incredibile che ad altre latitudine sarebbe già stata resa immortale dal cinema. Una favola conclusasi con un Happy End talmente epico che se fosse stato sceneggiato risulterebbe quasi banale. Come nel più scontato dei copioni l’epilogo del romanzo avvenne infatti con un duello decisivo. Il classico faccia a faccia dell’ultimo minuto tra il protagonista e il suo più acerrimo rivale. Per iscrivere il proprio nome nella gloria Bogliasco dovette affrontare una sfida che pur non essendo una finale di fatto ne assumeva tutti i contorni. Dopo aver messo in riga tutte le avversarie nel corso di una stagione quasi perfetta c’era ancora un ostacolo a frapporsi tra il Tricolore e i ragazzi di Marciani. Un ostacolo che non aveva bisogno di presentazioni né di aggettivi a sottolinearne la caratura: la Pro Recco. “Arrivammo a quella gara con la classifica dalla nostra parte e un pareggio ci sarebbe bastato per vincere il titolo. Ma quel giorno nessuno di noi pensò minimamente a quell’eventualità. Volevamo solo vincere, senza fare calcoli né speculazioni. Sapevamo di essere stati più forti e dopo averli battuti all’andata volevamo dimostrarlo un’altra volta di fronte al nostro pubblico”.
E proprio il pubblico seppe dare la spinta decisiva. Richiamato dall’appuntamento con la storia nessuno a Bogliasco, ma neanche nei borghi più o meno vicini, sembrò volesse perdersi l’opportunità di essere testimone di un evento irripetibile: “Se avessimo avuto uno stadio a disposizione credo che difficilmente sarebbe bastato a contenere tutta la gente che voleva assistere a quella gara. Il Comune aumentò la capienza della piscina, installando altre due gradinate in tubolari. Ma già dopo pranzo, malgrado il fischio d’inizio fosse alle 19, le gradinate erano stracolme. Così a poco a poco il pubblico cominciò a radunarsi sul ponte dell’Aurelia che scorre sopra alla piscina affollandolo all’inverosimile, con le conseguenze che potete facilmente immaginare”.
Quell’8 agosto 1981 la Riviera di Liguria venne letteralmente spezzata in due. Percorrere la viabilità ordinaria per qualsiasi mezzo, pubblico o privato, a due o a quattro ruote, divenne impossibile. Ben più di quanto non lo sia già in un normale giorno d’estate. “La folla era talmente densa che se dal cielo fosse caduto uno spillo difficilmente avrebbe toccato terra”. Un oceano d’entusiasmo, come mai si era mai visto per una gara di pallanuoto o per qualsiasi altro evento. Una calca che divenne orgia dei sensi quando la sirena della piscina sancì il definitivo 9-7 a favore dei bogliaschini. Il tranquillo borgo che da millenni sonnecchiava placido sulle acque del Mar Ligure si trasformò all’improvviso in una Copacabana fuori stagione e fuori contesto. La festa coinvolse tutti, anche chi a palombelle e beduine dava altri significati: “Per motivi che si possono ben comprendere, io del post-partita ricordo poco. Qualcosa mi è stato riferito in seguito ma non so se tutto corrisponda alla realtà. Ciò che so è che dopo quella serata, un po’ per la stanchezza della gara un po’ per i postumi della festa, restai due giorni a letto senza riuscirmi ad alzarmi. Ma quando lo feci mi sembrò di camminare a un metro da terra tanto era l’orgoglio che provavo per quell’impresa”.
La parabola del Grande Bogliasco si spense qualche mese più tardi in Catalogna, ad un passo dalla meta più ambita. Lo spettacolo mostrato in patria fu ribadito in Coppa Campioni. Ma a differenza del titolo italiano quello europeo rimase un sogno infranto in semifinale dal Barcellona.
Un’amarezza enorme che tuttavia non potè scalfire minimamente ciò che si era fatto in precedenza: “Io sono arrivato a Bogliasco nel 1978 – conclude Fossati – e da allora, a parte una parentesi calcistica, sono sempre rimasto qui. Questa società, comunque si chiami, è parte di me. E’ quasi un pezzo del mio DNA. E ancora oggi ad ogni ragazzo che gioca con noi cerco di raccontare cosa significhi indossare questa calottina”.
Perchè davvero ciò che accadde quel 8 agosto 1981 non fu solamente sport…